Viviamo in un mondo che guarda solo avanti, velocemente anche, che non ha più il tempo né la voglia di guardarsi alle spalle, perché ciò che sta dietro è passato e ciò che è passato è vecchio. Poi però partiamo per luoghi nascosti, difficili, a volte ancestrali, ai nostri occhi almeno.
Ti sei mai chiesto il perché?
Insomma per gli oltre 300 giorni all’anno siamo alla ricerca di aiuti provenienti dal futuro che cambiano alla velocità delle stagioni. E vada per l’ambito lavorativo, a casa per il disbrigo delle mansioni domestiche, per i nostri spostamenti. Piccoli e grandi alleati che ci conducono, paradossalmente, all’aumento dei battiti, degli atti respiratori senza più percepire il nostro corpo per intero.
Sei solo Tu e “una macchina” al tuo servizio. Un comando artificiale utilizzato perfino per la ricerca della stanchezza muscolare ma sempre sotto stretta sorveglianza, c’è il braccialetto, ci sono i parametri, un po’ come i carcerati nei film.
Eppure sempre più affamati di ore da impiegare, sempre più riluttanti di fronte alle cerimonie tanto da non conoscerne più il significato e l’importanza, sempre più in fuga da incontri parenterali o semplicemente da appuntamenti con gruppi di individui che non trascendono da una birra o da una discussione di sport.
Ed eccoci ancora noi, in vacanza, nella frenetica necessità di impegnarsi nelle più svariate azioni, per rilassarci e stordirsi, nella ricerca di alzare sempre un po’ l’asta, nel volersi sentire come a casa: freneticamente comodi.
Ma poi ci ritroviamo a provare emozioni per ciò che è semplice e ripetibile: un tramonto, l’acqua, il silenzio.
Quando invece vestiamo gli abiti del viaggiatore scegliamo le nostre mete di viaggio in base alla lontananza nelle abitudini, nei linguaggi, nello stile di vita. Tra di noi parliamo spesso di come certe culture si siano annacquate, non siano più riconoscibili come lo sono state in un nostro precedente viaggio.
La scelta di una destinazione è spesso indirizzata dall’esigenza, e quindi dalla fretta, di poter visitare quel luogo in maniera originale, autentica.
Tengo bene nella mente l’emozione di osservare al mattino le donne e gli uomini che si lavano nelle acque del lago Pichola, a Udaipur, in India. Poetico e sacro.
Oppure la sensazione fanciullesca di avventura nel salire sopra un mezzo di trasporto collettivo, tipico, vecchio e un po’ pericoloso. Ridere, guidando su manti stradali più simili a formaggi svizzeri che a strade, oppure bearsi raccontando di cibi più che esotici folli a nostro avviso.
E ancora la ricerca, quasi fosse una sfida con il mondo, di un contatto umano disinteressato che si compia nel più breve tempo possibile e che crei un incantesimo che noi non sappiamo più riprodurre.
Mi chiedo se sia normale trarre delle emozioni da tutto questo, di più, sperare che certi meccanismi rimangano invariati, come se fossero equi, giusti per le persone che li vivono quotidianamente. Arriviamo a sperare che nulla cambi o che il cambiamento non vada a discapito di certe realtà di cui ci siamo entusiasmati, come se fosse possibile.
Ci indigniamo solamente se durante il nostro cammino l’avventura si trasforma in problema, l’emozione diventa paura, il sacro sconfina in divieti che riguardano anche noi. È allora che auspichiamo in un’innovazione.
Detto ciò rimane da rispondere ancora alla prima domanda, del perché ci piaccia tutto questo.
Non credo sia legata solamente al provare esperienze quasi impossibili da ripetere vicino casa, auspico che non sia dovuto nemmeno alla necessità di aumentare le tacche sulla cintura per mostrarle ai social. Forse perché il significato autentico di vita lo abbiamo un po’ perso di vista o non ci prendiamo il tempo per cercarlo e quindi per viverlo.
La vita là è amplificata e la deflagrazione ti pervade e mette in discussione il tuo cubo di Rubik, che a casa energicamente cerchi di risolvere, nel vano tentativo di disporre tutte le facce monocolore.
Un rompicapo che non permette di gustarsi appieno nessun passaggio. Passano inosservate le serie sempre differenti e casuali di colori durante il viaggio che è la nostra vita, invece là ti fermi e li senti tutti quei dannati quadratini, uno per uno.
Poi guardi il cubo nel complesso ed è un groviglio sconfusionato di colori senza logica.
E allora perché?
Articolo di
Silvia Balcarini