Sono le immagini e le parole ripetute che influenzano in molti casi la scelta dei viaggiatori indirizzando di conseguenza le strade sulle quali dirigerci.
Saigon rievoca molteplici immagini, di prostituzione, francesi seduti sui risciò, scene di guerra, ma è una sola parola che leghiamo a questa città ed è Mekong.
Abbandonata da subito l’idea di visitare i tunnel di Cu Chi, avendo visto quelli di Vinh Moc non potevo che focalizzarmi sul Mekong, uno dei fiumi più importanti al mondo insinuatosi in tutti i principali paesi dell’Asia, fatta eccezione dell’India, e che in ultimo, si lascia andare capillarmente in Vietnam con il suo labirintico delta diventando il paniere dell’intero paese. È infatti da qui che proviene la maggior parte del pesce, frutta, zucchero, riso che alimenta la popolazione vietnamita e non solo.
Le escursioni per dare un’occhiata al famoso fiume si sprecano e sinceramente è difficile districarsi.
Molti degli insediamenti più importanti sono adesso città enormi che poco attraggono. In primis ti dico, se puoi, non sceglierne una in giornata da Saigon, il risultato sarebbe fine a se stesso: sei stato sul fiume in barca, punto.
Vado con raccontarti la mia scelta, dicendoti cosa mi è piaciuto, cosa no, certo non posso dirti se il restante sia migliore o meno. Xeo Quyt è la prima sosta nonché la base operativa dei Vietcong e questo lo si intuisce subito, impossibile districarsi in questo labirinto acqueo e soffocatamente verde, ed è per questo che non furono mai scoperti. Qui si stava, qui si dormiva e si mangiava, tra umidità, caldo, zanzare, cucinando lo stretto necessario, per non far vedere i fumi del fuoco.
Mi raccontano, al contrario di quello che appare nei film, che non mangiassero più che altro riso ma manioca, un tubero che poteva essere facilmente piantato ed estratto in questo terreno. Una stanza museo raccoglie gli arnesi, alcune munizioni e foto di chi è dovuto stare qui. Poi fammi sapere cosa avresti scelto tra questa opzione o quella dei tunnel…
Sono le donne che ti accompagnano nel giro sul barchino, in ognuno di essi sarete in due più la soave signora che con l’aiuto di un lungo bastone si sposta agilmente nell’impasto della vegetazione. Per salire e per scendere ti danno una mano, in più c’è un corrimano sul quale reggersi, muoviti lentamente, metti i piedi sulla parte centrale e una volta seduto cerca di non spostare il baricentro che qui schizzare in acqua pare un attimo!
Io l’ho messa giù un po’ pesante ma devo dire che l’ergonomia a parer mio non è delle migliori. La sensazione è di stare su un trabiccolo, si suda e si respira aria umida, gli insetti si possono bene osservare essendo quasi al pari del terreno circostante, che inizia subito dove finisce l’imbarcazione, la vegetazione è talmente fitta da far sparire la propria tridimensionalità diventando un pannello talmente alto da non poter essere valicato e il cielo, nella maggior parte del tempo te lo dimentichi, distante com’è, non ti appartiene più.
I canali spezzano la loro monotonia silenziosa con degli slarghi, a voler essere ottimisti sembrerebbero esser fatti per comodità, l’incontro con un altro barchino, un parcheggio; sono le bombe lanciate dagli americani, tonde e profonde.
Eccomi a Sa Dec, la casa non molto grande ma caratteristica richiama una certa curiosità che però si vanifica in un paio di minuti. L’amante, è così che si chiama il libro e il film autobiografico di Margherite Duras, e questa è la reale dimora di lui divenuta adesso ristorante e piccolo boutique hotel, con due camere. Ci sono le foto di loro, reali e attori.
Lui un commerciante sposato di 24 (ci dicono), lei francese di 17 (ci riferiscono) dettero scalpore per la storia d’amore clandestina tra un’adolescente e un uomo maturo. Secondo me lo scalpore lo fece il fatto che lei fosse francese e lui cinese. Si è accolti da guide-cameriere che spiegano la casa e servono a tavola come se fossero rincorse da una tigre, a momenti ho paura che una cadda a terra svenuta perché non ha respirato a sufficienza.
Il cibo è quasi orribile, si vuole andare troppo incontro all’ospite occidentale, non accontentando nessuno e offendendo la cucina locale. Il merluzzo nel ketchup mi ha lasciato senza fiato, il conto delle bevande: acqua, limonata e caffè senza parole. Forse era meglio visitare un roseto, chissà.
Ho dormito a Can Tho, nonostante la grandezza demografica e di superficie riportata sulla mia guida, girottolare nella zona del lungofiume regala un’aria genuina ma moderna, senza troppo odore di locali da turismo, ma non certo pittoresca. Il pomeriggio serve per un caffè, una birra, il mercatino. Il cibo in strada nella piazza mi ha attratto più di ogni altra cosa, cucinato, presentato e venduto con estrema igiene e accuratezza, in una traversa invece il lungo muro ospitava una serie di tavolini occupati, si serviva una zuppa. Non averla assaggiata sarà uno dei ricordi più vivi di Can Tho.
Assistere ad un mercato galleggiante è il clou dell’escursione targata Mekong, la mia immagine era quella di Bangkok, già mi ripassavo le immagini. Invece che delusione. Nonostante fossi in escursione privata non c’è stato verso di raggiungere Cai Rang prima delle 9. Spero che sia stato quello il motivo, arrivare troppo tardi.
Le imbarcazioni era poche e pochi i colori, la maggior parte della merce era chiusa in scatole, cassette, sacchetti. Il nostro girare continuo a mo’ di pescecane intorno a queste 3 barche mi ha sconfortata per non dire peggio. Meno male che è durato il meno possibile. Va da sé che questa parte dell’escursione vada ben curata o chiarita, altrimenti hai gettato tempo e soldi, secondo me.
La tappa successiva è stata la produzione della carta di riso, ho apprezzato il fatto che fosse in un contesto autentico e che nessuno abbia pressato per l’acquisto di questa o altri prodotti, pochi per la verità.
Volendo si poteva assaggiare il topo, di risaia ovviamente, non di città o canale, devo confessare che l’aspetto era invitante. Il breve tempo di permanenza ha scelto per me. Si approda un’ultima volta prima di rientrare a Can Tho, è per una passeggiata in bici, rilassante ma non coinvolgente sia chiaro.
Il finale è un enorme banco di frutta, sbucciata, tagliata o frullata per te. Mai assaggiata così tanta, varia, sconosciuta e dai nomi che non ricorderà nessuno.
D’ora in poi per me, Mekong = frutta.
Articolo di
Silvia Balcarini