Ottobre, strada, Turchia. Tutto è favorevole e la meta è una chimera.
Un paio le deviazioni di oggi. Sulla strada maestra c’è il solito cartello che indica di girare a sinistra. Perché no. Limyra è riportata anche sulla guida; qui dice che tutto ciò che è visibile è sulla strada e che in pochi minuti potrò tornare indietro.
Eccoli, inconfondibili i lineamenti del teatro, più in la si vede già il “cappello” di una tomba licia. C’è un cancello, sembra chiuso, di fronte un pannello esplicativo. Proseguo più avanti, tornando indietro ci butterò un’occhiata; dal finestrino aperto il giardino sulla destra ospita, come spesso accade in Turchia, resti storici, colonne, capitelli, niente per cui valga fermarsi.
Un grande parcheggio con l’autobloccante, per chi mi chiedo, proseguo a passo d’uomo, è il momento dell’inversione. Mi accorgo della stradina che prosegue delineando un perimetro ma di più mi accorgo del signore vestito in maniera autorevole che gesticola. Mi ripete un paio di volte la stessa frase, non resta altro che ricambiare con un sorriso. Capisce che non capisco, mi fa segno di proseguire. La strada si restringe, non è asfaltata, ci sono due bagni pubblici, poco più avanti una nonna che bada al nipote. La strada non sfocia. Passati pochi minuti il pannello è adesso sulla sinistra, scendo solo per rispetto a chi ve lo ha messo e per stirarmi la schiena. Mi accorgo che il cancello chiuso non ha il chiavaccio, basta spingere.
Mentre avanzo ripasso i perché no.
È giorno, non ci sono divieti, non sono una malintenzionata, tra poco esco, ecc. Mi piace subito l’immagine del giardino e dei gradini, come sempre fuori misura per i nostri standard, posti a pianta quadra, era il tempio. Esso fa da sfondo a due caprette che pascolano.
Il sentiero aperto continua, arriva ad un ruscello con ponticino, nell’altro versante mi accorgo che il ruscello corre sulla strada lastricata della città, colonne e capitelli sommersi, ma stavolta, si vedono senza indugi (questo non c’era scritto sulla guida). E ancora caprette che brulicano tra decori, statue, un’atmosfera bucolica. Ma lo sai che è proprio delizioso!
Il ruscello continua e io lo seguo, l’acqua trasparente evidenzia sassi e migliaia di cocci, pietre, un minuzioso puzzle antico. Questo è un giardino pubblico, ci sono i giochi per bambini, la zona barbecue, una fontana, delle rimesse. La strada asfaltata prosegue con una salita a grandi curve, presto, nasce l’esigenza di dover chiedere: l’amato gps non trova l’obiettivo.
All’ennesima curva aperta decido di fermarmi, c’è un mercatino, un bar, una toilette, un ruscello. Qui si mangiano pannocchie bollite o arrostite, si può acquistare frutta, verdura e miele. Chiedo al fruttivendolo se conosce Arycanda, mi dice di girarmi indietro. C’è una strada piccola in salita che non si sarebbe vista guidando, la si vede solo da questa prospettiva.
Non c’è nulla che tenga, il fattore C è fondamentale. Questo sito è bello, grande e particolare, al contempo, faticoso, non segnalato e mal gestito. La città è stata costruita su un’irta collina che si rispecchia nella collina di fronte. Il richiamo del muezzin risuona e crea un eco. Ti fermerai ad ascoltarlo.
All’entrata ti daranno la cartina del sito. Mai ne avevo vista una più piccola, inutilizzabile e inguardabile, stampata male. Forse con una lente d’ingrandimento…
Il problema non è perdersi ma cercare di effettuare un giro sensato capendo cosa si stia vedendo o dove si stia andando. Altrimenti sarà tutto un sali e scendi dalla collina. Così è stato.
Il teatro è nella parte più bassa, lo stadio in quella più alta. Che forte giocare così in alto ammirando il panorama! Non è facile destreggiarsi tra i vari sentieri moderni che salgono, tagliano e scendono nella città.
Dopo 3 ore mi sono arresa, non ho finito di visitarlo. Quando è troppo è troppo, anche per me. L’acqua devi averla con te.
Sono arrivata a çirali con il buio. Il centro minuto offre una manciata di ristori pittoreschi e qua e là disseminati nel buio, alloggi dall’aria ricercata. Nonostante il paesaggio boscoso, siamo al mare. E, nonostante non abbia visto ancora niente, l’atmosfera mi piace. Bevo qualcosa in un bar prenotando una camera nella vicina Olympos. Solo al ritorno scoprirò che vicina non è, se non dalla spiaggia, 500 metri. In auto devi risalire la collina girare a sinistra e scendere nuovamente. Calcola di notte, 45 minuti.
Prima di proseguire faccio un incipit.
Le chimere così come le conosciamo sono figure mitologiche mostruose formate da parti di più animali. Tutto ciò parte da una storia. La bestia Chimera, abitante di Patara, venne finalmente uccisa e sepolta sottoterra, ma nessuno riuscì mai ad arrestare le sue fiamme che tutt’ora escono dal terreno. Riprendo l’auto e continuo sulla strada che conduce alle chimere. Non puoi sbagliare, sempre dritto, le persone la percorrono anche a piedi. Attento a non mettere sotto nessuno, è stretta e completamente al buio. C’è il parcheggio, una zona relax, un piccolo bar con tv, tavolini e sedie. Un gruppo urlante di giovani sta guardando la partita.
È tutto all’aperto. Si paga il biglietto. Qui è sempre aperto e sempre c’è qualcuno.
All’inizio gli scalini, se ben scivolosi, sono stati compattati con il cemento ed hanno un’altezza umana. Il resto è “un’espiazione dei peccati”. Il mio consiglio è di avere le scarpe da trekking (non dare retta ai fenomeni), acqua (qualunque sia la temperatura), kway (idem) e una torcia a persona. E tanto alcool, non per festeggiare, ma per sbronzarsi pensando alla discesa.
La strada è dannatamente lunga, in salita, tra sassi e scalini con pedate da vatussi.
Ti fermerai più di una volta a riprender fiato, a domandare quanto manca (non lo fare, manca sempre tantissimo) e a chiederti chi te lo ha fatto fare perché, per lavoro, non lo avresti mica fatto! Poi ci sono gli stranieri con i bambini, un paio a coppia s’intende, più son piccoli meglio è.
Poi ci sono gli anziani, con il bastone, e quelli che non hanno il physique du rôle.
Qua e là, grandi e piccole, spuntano dal terreno.
All’arrivo ti ci vorresti buttare a corpo morto sulle fiammelle, ma eccolo, ti viene in salvo il nuovo metodo, si chiama selfie e distoglie chiunque da pensieri intelligenti.
Articolo di
Silvia Balcarini